ENIGMATICO GEORGES DE LA TOUR

Maddalena penitente, National Gallery, Washington

            C’è molto da riflettere guardando i dipinti di La Tour esposti a Palazzo Reale. Intanto perché questa è la prima mostra dell’artista in Italia e i quadri sono altrimenti difficili da vedere perché dispersi in musei spesso minori. Ma soprattutto perché La Tour è forse il pittore più enigmatico e inquietante della nostra modernità.

            Fino al 1915 Georges de la Tour (1593-1652) era un nome senza opera. In quella data Hermann Voss gli attribuì un primo numero di quadri. Fu poi Roberto Longhi che s’innamorò dello strano artista nel 1926. Nel ’35 scriveva: «Lei dovrebbe vederlo! È un pittore sorprendente. Non abbiamo strumenti per misurare il genio; ma sento che il talento del De la Tour spezzerebbe più di un manometro. È un peccato che non abbiamo nulla di suo in Italia»[1]. Da allora c’è stato un susseguirsi di scoperte e attribuzioni, con gli inevitabili errori, fino all’attuale catalogo di quaranta opere.

            Di queste una quindicina sono nella mostra Georges de la Tour, l’Europa della luce, a Palazzo Reale di Milano, curata da Francesca Cappelletti e accompagnata da un catalogo Skira che oltre all’esposizione riporta l’intero corpo dell’artista.

            La Tour godeva di una certa fama in vita e arrivò a essere pittore del re. Ma la storia ci ha lasciato di lui pochissime tracce biografiche. Sappiamo che trascorse quasi tutta la sua vita nella Lorena, che fu padre di undici figli, che aveva un carattere difficile e un gran numero di cani. Atti di battesimo e qualche documento di cause legali è tutto quel che ci resta. Ma dopo le prime scoperte un secolo fa, la critica è stata supergenerosa, specialmente quella francese. A. Fermiger, uno dei massimi esperti, nel 1972 lo chiamò «le dieu de la peinture pure». Adesso uscire dai libri e vedere i dipinti dal vero aiuta a farsi un’idea propria, legittima come sempre ma più nel caso di un pittore che resta ermetico.

            L’opera di La Tour si può dividere in due parti nettamente diverse. Inizia come pittore d’influenza fiamminga, che come i suoi colleghi nordici predilige le scene di genere, i tipi caratteristici. I santi (unico tema religioso) di questo periodo non sono diversi da quelli di tanti altri artisti: molti hanno dipinto collezioni di apostoli a mezzo busto, molti hanno raffigurato san Girolamo. E non c’è molto altro. Bello, ma non da gridare al capolavoro. Lo dimostrano i quadri di confronto di pittori contemporanei che fanno da corredo in mostra. A un certo momento cambia registro e diventa quel pittore luminista, o tenebrista, quello delle candele e dei colori caldi. Qui sì che è originale, uno che ha trovato il suo talento e il suo linguaggio. Ed è questa la parte interessante della comunque bellissima mostra.

           

Parigi

 

            Tra le poche certezze cronologiche della vita di La Tour, una c’è ed è uno spartiacque: nel 1639 risulta a Parigi a servizio di Luigi XIII e viene citato come «pittore ordinario del re». E nel 1640 risulta «residente nelle gallerie del Louvre». Quindi Georges ha trascorso almeno un paio d’anni nella capitale e più o meno a corte.

            Ora, stando alla scansione temporale delle opere generalmente accettata e che risulta sempre più ragionevole, osserviamo a partire da quelle date un profondo cambio di visione, di stile, di sensibilità nei dipinti. Le figure vivono, spesso isolate, in un ambiente buio, rischiarato a lume di candela; sono pensose, malinconiche, spesso in evidente meditazione; si è rinunciato a ogni ornato, nell’ambiente, nei vestiti, nelle acconciature; tutto è ridotto all’essenziale. In questo senso i dipinti trasmettono un senso di purezza, quasi il sogno di una purezza persa che si vorrebbe recuperare. Ma trasmettono pure una certa tristezza, a volte angoscia: è un’umanità, se non disperata, seriamente preoccupata. Tranne quattro eccezioni, tutti i dipinti attribuiti di questa seconda fase sono di soggetto religioso. Ma è questo che inquieta. Che religiosità è questa? Non sono quadri da chiesa, non sono immagini di devozione, non almeno come lo erano altri dipinti contemporanei, pensati per comunicare con il fedele in ossequio anche alle raccomandazioni tridentine. Questi sono una sorta di immagini rubate, come sguardi furtivi nell’intimità dei santi, nella penombra della loro preghiera e dei loro drammi interiori.

            Per tentare di comprendere qualcosa di più occorre guardare alla Parigi di quegli anni. Che cosa poté La Tour cogliere nella capitale? Con quali ambienti può essere venuto a contatto? Di quali atmosfere si può essere impregnato? Tutte ipotesi, naturalmente, ma è l’unica strada.

            Intanto bisogna dire che il Grand Siècle al di fuori dell’ambiente aristocratico era molto meno grande[2]. Un osservatore affidabile per il contatto con la gente dell’intero paese, san Vincenzo de’ Paoli, scrive a papa Innocenzo X il 16 agosto 1625, sette mesi dopo la morte dei La Tour: «Oserò esporle lo stato miserabile e certamente degnissimo di pietà della nostra Francia? La casa reale divisa in dissensi; il popolo scisso in opposti partiti; le città e le province rovinate dalle guerre civili; le borgate, i villaggi e i castelli abbattuti, rovinati e bruciati; i contadini messi nell’impossibilità di raccogliere quello che hanno seminato e di seminare negli anni futuri. I soldati si permettono impunemente tutte le angherie. Il popolo è esposto non solamente alle rapine e al brigantaggio ma anche agli assassini e a ogni sorta di tortura da parte dei soldati: i contadini sono torturati o messi a morte; le vergini sono da essi disonorate; le religiose stesse esposte al loro libertinaggio e al loro furore; le chiese profanate, saccheggiate, distrutte; quelle rimaste in piedi sono per lo più abbandonate dai loro pastori, e quindi il popolo quasi privo dei sacramenti… È poco udire o leggere queste cose, bisogna vederle e constatarle coi propri occhi». La Tour soffrì tutto questo nella sua Lorena.

            Ma a Parigi lui si muoveva nell’ambiente aristocratico, alveo delle complesse correnti spirituali che si succedevano e s’intrecciavano. Poche epoche tanto attorcigliate nella spiritualità cattolica come il Seicento francese.

Nella Parigi di inizi del Seicento teneva banco madame Acarie con il suo circolo frequentato dalle migliori teste. Vi partecipò anche Francesco di Sales (1567-1622), che diventò confessore della dama ma ne fu anche correttore. La Acarie proponeva una spiritualità astratta, che guardava alla mistica renana e mirava all’unione diretta con Dio escludendo ogni mediazione, anche quella di Cristo-Uomo.

Sicuramente durante il soggiorno parigino di La Tour si discuteva sul giansenismo (che allora non aveva ancora un tale nome). Cornelius Jansen (Giansenio) era morto nel 1638) e nel 1642 arrivò la bolla di condanna In inminenti. Il caso, per le radici che aveva gettato in Francia, doveva essere sulla bocca di tutti in quell’ambiente. Il giansenismo non si può considerare un movimento uniforme. In genere avevano sempre proclamato la loro adesione alla dottrina cattolica benché avessero idee divergenti sulla grazia e la libertà, proprio i temi di Trento: l’uomo sarebbe seriamente compromesso dopo il peccato originale, con una libertà ridotta, incapace di fare nulla senza la grazia; credevano in una predestinazione vicina al pensiero protestante. Per vie sempre difficili, questo pensiero li portava a un atteggiamento rigorista, ravvivato dal desiderio di restaurare l’antica interezza cristiana.

            A partire dal 1623, un amico stretto di Giansenio, Jean du Vergier de Hauranne, più noto come Saint-Cyran, prese la direzione spirituale del monastero femminile di Port-Royal des Champs, alle porte di Parigi, che fu il principale centro del giansenismo. Saint Cyran sosteneva il ritiro, la fuga dal mondo. «Per quel che è la nostra vita mortale bisogna essere malati nell’anima e posseduti da qualche cattiva passione, per arrivare ad amarla». «Dio, avendo tenuto in considerazione, mentre lo creava [il mondo], le conseguenze del peccato che doveva essere commesso […] l’ha fatto solo perché servisse all’uomo come occasione per essere virtuoso, fuggendolo, odiandolo e rovinandolo per quanto è possibile». Un tale pessimismo comunque attirava alcune personalità di spicco nel mondo politico e nobile, i «solitari» che, a partire dal 1637, abbandonavano il mondo per una vita ascetica e ritirata. E ciò non poteva non preoccupare la monarchia.

            In sostanza si proponeva una spiritualità individualista che coltivava assiduamente la preghiera intima, la meditazione. Nei confronti di Dio bisognava avere un sentimento di timore, perché lui ha scelto i predestinati, accompagnato da seria penitenza e dominio di sé per recuperare la purezza originaria. Saint-Cyran morì nel 1643.

L’altro caposaldo di quel periodo della spiritualità francese fu il cardinal Pierre de Bérulle (1575-1629), il quale, sebbene sembri essere al polo opposto in quanto ortodossia, condivide con i primi certi atteggiamenti fondamentali. Si è parlato molto del pessimismo di Bérulle. Egli pensava che il peccato originale avesse ferito profondamente l’uomo rendendolo incapace di amore vero. Trovava la strada in una vita di orazione personale, di rapporto intimo con Dio o, per meglio dire, con Gesù Cristo. Quel che deve fare l’uomo è adorare Dio nel profondo del suo cuore. Però attenzione, questa contemplazione bérulliana più che devozionale è teologica, metafisica, quasi astratta e soprattutto, rispetto alla devozione prima e dopo di lui, è vista «in negativo». Bérulle trovò le vie per diffondere il suo pensiero nella promozione del carmelo riformato, di cui fu superiore dal 1603, e nella fondazione dell’Oratorio per la riforma del clero.

 

Chiave di lettura?

 

            Non ci danno questi accenni una certa ragione delle immagini del secondo La Tour? Molto opportunamente ha notato Francesca Cappelletti la differenza tra la sua Maddalena e quella di Tiziano a Palazzo Pitti, che diventò subito famosissima e copiatissima. Questa, pur in un ostentato atteggiamento di preghiera, copre il corpo procace con la foltissima capigliatura che non riesce a evitare (o non lo vuole) il tono sensuale. Queste erano le Maddalene che andavano. Ma la Maddalena di La Tour non si sposa nemmeno con quella ben più vicina di Caravaggio al Musée des Beaux-Arts di Marsiglia, reclinata in un’estasi sempre alquanto erotica. La nostra Maddalena, nelle varie versioni, è serenamente seduta e vestita, col volto girato come se volesse evitare il nostro sguardo, i capelli lisci e solti dietro le spalle. E gli bastano due elementi simbolici: lo specchio per alludere alla vanità della vita passata, il teschio per dire dell’attuale penitenza e meditazione. A volte manca perfino lo specchio. E tutto ciò avviene in una comune stanza, ridotta a un minimo ascetico e illuminata da una comune candela. Qualunque donna, insomma, in un momento di riflessione o di tristezza avrebbe potuto essere questa Maddalena.

            Altrettanto si dica di altre opere presenti in mostra. Educazione della Vergine, per esempio, del 1650 circa, della Frick Collection di New York: una Maria bambina, col volto bianco alla luce della candela, legge da un libro tenuto in mano da sant’Anna. Questo dipinto è un buon esempio della semplificazione formale operata dall’artista in quella seconda fase: sono scomparse dai volti e dagli abiti tutte le rughe, le pieghe e tutto ciò che risulti troppo caratterizzante. Volumi puri, campiture ampie, intonazione bassa, ecco le caratteristiche del nuovo linguaggio. Della stessa data dovrebbe essere Giobbe deriso dalla moglie, oggi a Épinal. Giobbe è un povero vecchio smunto, seduto seminudo su uno sgabello nella penombra. La moglie, con un ampio (ma semplicissimo) vestito rosso occupa quasi tutto lo spazio e parla al marito, candela in mano, senza agitazione. Tutto qui. Ha rinunciato alla teatralità che la scena quasi postulava, si è ridotto all’intimo sussurro, più amorevole di quanto non suggerisca il testo biblico. Giobbe, insomma, qui è un santo e sua moglie lo sa. Questo quadro è tra i più belli della storia della pittura. Stesso discorso per il San Sebastiano curato da Irene, del Musée des Beaux-Arts di Orléans, che probabilmente è una copia. Nell’intimità di un locale lievemente rischiarato da una lanterna, Irene estrae amorevolmente la freccia dalla gamba di Sebastiano in una casta e affettuosa amicizia fra santi. Si giunge così al San Giovanni Battista nel deserto, di Vie-sur-Seille, dove un Giovanni adolescente, stessi capelli lunghi e lisci dietro le spalle, è ridotto a puro contrato di luce e ombra, è diventato solo pensiero, riflessione, consapevolezza. Ma in tutti questi personaggi alleggia uno sconforto difficile da definire.

            Gli altri dipinti del periodo non presenti in mostra non fano che confermare questa visione. Perfino la Donna che si spulcia, di Nancy, non è tanto diversa dalla Maddalena, sembra che i parassiti siano la sua penitenza. Il neonato, di Rennes, presenta una giovane Maria con il Bambino bendato in braccio, come era uso, mentre una donna le tiene compagnia in silenzio. Lo sguardo interiore di Maria rimanda a chissà quali mondi di orazione e mistica, pur essendo lo sguardo normale di una ragazza lorenese innamorata o madre. C’è poi il delizioso Sogno di Giuseppe, a Nantes: un vecchissimo Giuseppe inesorabilmente assopito è risvegliato con delicatezza da un bambino (un angelo o Gesù?), il tutto in salsa minimale. Il San Giuseppe falegname del Louvre è solo un po’ più movimentato. E nella Adorazione dei pastori, ancora del Louvre, nessuno parla, tutti guardano il bambino e basta: vita interiore. Sono solo alcuni esempi che possono bastare.

            Ora, d’accordo che non sono quadri d’altare e nemmeno quadri di devozione. E allora che cosa sono questi santi? C’è qualcosa di strano, in effetti, di molto strano. Non c’è un solo Cristo, né un crocifisso, né una scena evangelica tolte la natività e san Giuseppe, nessun riferimento liturgico, nessun cenno di encomio, nessuna retorica… C’è solo solitudine e afflizione. Strana spiritualità, forse frutto di un tempo confuso, forse del tormento del pittore. Caso unico negli artisti dell’epoca.

            La Tour cerca e trova la poetica funzionale a questa visione dell’uomo e del sacro. Della semplificazione formale si è già detto, ed è di provata efficacia per non lasciar deviare l’attenzione verso dettagli accidentali, per esprimere insomma un concetto-sentimento astratto. Forse è stata proprio questa caratteristica a farlo apprezzare così tanto nel XX secolo, a la cui sensibilità di certo lo avvicina. Un dipinto come la versione di san Sebastiano e Irene al Louvre è molto affine all’ideale degli artisti del nostro Novecento milanese, quelli della Sarfatti.

            L’altra risorsa, la luce intimista della candela, non è invenzione sua. La stessa mostra gli accosta esempi molto alti dell’uso di questo strattagemma che fu uno dei figli più o meno bastardi di Caravaggio nato nell’Europa nordica. Ma è idoneo per ottenere il clima d’introversione e di mestizia. Per il suo effetto accattivante sarà la cifra di La Tour che tutti riconoscono, ma non è la chiave della sua arte.

Michele Dolz



[1] R. Longhi, I pittori della Realtà in Francia, ovvero i caravaggeschi francesi del Seicento, in «L’Italia letteraria» 19 gennaio 1935.

[2] Il tema è stato molto studiato. Per una visione panoramica semplice e precisa, cfr. M. Motta, La spiritualità del Seicento francese e la preparazione delle idee della modernità, in «Nuova Umanità» XXXI (2009/1) 181, pp. 55-79.