La luce dei fossili

Fossile è un termine della paleontologia. Viene dal latino “fodere” (scavare) e indica i resti di vita passata (foglie, pollini, conchiglie, ossa, uova e altro ancora) che si trovano incastonati, fossilizzati appunto, nelle rocce sedimentarie.

     Non c’è cosa più vicina alla morte. Tanto che anche nel linguaggio comune il complimento “sei un fossile” si rivolge a chi non riesce ad essere del proprio tempo.

     Perché allora Michele Dolz dipinge dei Fossili viventi? Quello che gli interessa non sono i “fossili viventi” propriamente detti, chiamati così da Darwin, cioè gli organismi o le creature – come, che so, l’opossum - che continuano a vivere ancora oggi mantenendo dei caratteri primitivi, oppure che appartengono a gruppi estinti da tempo. No, a Dolz interessa proprio contrapporre antico e contemporaneo, assenza di vita e vita.

     Nello spazio della tela disegna una forma che pulsa, palpita, respira e che si staglia sul fondo, anzi si divincola alla stretta della materia. Il fossile in natura è imprigionato nella roccia, ma nella pittura di Dolz è invece libero. Rimane aggrappato come una madrepora alla superficie, ma si gonfia, si slabbra, lievita come una creatura vivente.

    In termini stilistici potremmo parlare, per queste opere, di un informale che dialoga con la forma. O, meglio, di una forma che mantiene la ricchezza di suggestioni dell’informale, cioè la vitalità della materia, la libertà e l’immediatezza del segno, l’emozionalità e l’istintività del gesto, però le disciplina fino a suggerire un profilo, una sagoma, un disegno: una forma, appunto, sia pure magmatica come un’argilla o una pasta vitrea ancora calda.

      E questa forma vitale, anzi vivente, è spesso quella di un pesce o di una farfalla. Non c’è bisogno di ricordare il significato simbolico, evangelico, del pesce. Quanto alla farfalla ci appare come qualcosa di lieve, volatile, eppure preciso, con un’ala, due antenne, una membrana. E’ una farfalla sui generis, che non ha nulla degli arabeschi ornamentali dell’Art Nouveau, ma ricorda piuttosto i versi del Purgatorio di Dante: “Non v'accorgete voi che noi siam vermi/ nati a formar l'angelica farfalla/ che vola alla giustizia sanza schermi?”

     Che cosa ci suggeriscono, allora, i Fossili viventi di Dolz? Intanto la persistenza del passato, che è la cosa meno passata che conosciamo. Sembra insegnarlo anche l’etimologia: “passato”, da passus che a sua volta deriva da pandere, “dispiegare, annunciare”, suggerisce l’idea che il passato non sia tanto qualcosa che è finito, che appunto è passato e non esiste più, quanto qualcosa che si è rivelato compiutamente davanti a noi: una fonte di conoscenza.

Lo stesso concetto lo insegna, del resto, anche la religione. Se guardiamo le cose da un punto di vista non naturale ma sovrannaturale, il passato non è cenere, ma parte del disegno di Dio. San Giuseppe non è un carpentiere israelita morto duemila anni fa, ma è un santo che puoi invocare, a cui puoi rivolgerti con una conversazione più viva che col tuo vicino di casa, che magari non sai nemmeno chi sia.

      Dolz suggerisce allora una diversa nozione del tempo, e quindi dell’esistenza. Inoltre i suoi colori che prediligono le gamme delle ocre o dei bianchi minerali ci insegnano che tutto è pervaso dalla luce. Anche ciò che sembrava arcaico, fossilizzato appunto. Perché, come diceva Carolux Rex citato da Pound: “Sunt lumina. Tutto, tutto ciò che è, è luce”.

Elena Pontiggia