Presentata da Gian Maria Tosatti
Gian Maria Tosatti
L’ODORE DELLA PITTURA
Una lettura dell’opera di Michele Dolz
Se ricordo bene, la prima volta che mi sono imbattuto nella pittura di Michele Dolz è stato rispetto ad alcuni suoi lavori che avevano al centro delle foglie, ammassate a terra, presumibilmente in un bosco, ai piedi di alberi che, però non si vedevano. C’erano solo le foglie. Molte, indistinguibili l’una dall’altra. La sua pittura mi colpì per uno stralunato e paradossale realismo. Le foglie erano lì, la figurazione era abbastanza classica, eppure, sembrava che il soggetto del quadro fosse un altro, nascosto, lontano da lì, perso nella memoria o nel mondo. Quel quadrato di foglie era solo una traccia, come quella su cui si sofferma un segugio per poter provare a individuare una nota olfattiva che possa portarlo, appunto, su una strada da seguire.
Che odore si sente allora in quei dipinti? Ecco, forse è questa la domanda giusta. È attraverso questo altro senso, che si riesce a vedere la pittura di Michele Dolz. Che si riesce a farsi portare da essa fin dove si nasconde l’immagine che non si mostra.
Ho continuato, poi, a seguire i suoi progetti. Ancora boschi, paesaggi, distese di terra che si gonfia come pane contro il cielo. Tutti sipari di un altrove che doveva essere raggiunto, seguendo un odore, qualcosa che nell’opera mostrava solo un indizio.
Così ho iniziato a capire che l’opera di Michele Dolz non si situava nel confine squadrato della tela, ma risiedeva, appunto, in quel percorso da fare. Ho camminato per molti chilometri, ho preso treni, mi sono riposato sui lungolago svizzeri e poi ho ripreso il viaggio, partendo da quei dipinti. Dove sono arrivato?
A volte mi sono perso. Ma non importa. Altre volte sono arrivato dove non credevo di dover andare.
Gino De Dominicis scherzava seriamente quando diceva che è lo spettatore che si espone al quadro. Ed è, appunto, così che funziona con la pittura di Dolz. Non c’è niente da vedere. Niente da cercare, da capire. Bisogna solo star lì. Per un po’. Ad osservare oltre la superficie. Come quando, nei pomeriggi dell’infanzia, si aspettava che passasse un certo limite di tempo determinato, avendo esaurito ogni fantasia, e si restava a guardare attraverso il vetro della finestra, la pioggia.
Sono quelle le immagini che mi sono rimaste più impresse di quegli anni.
Perché lì, in quel vetro bagnato che sfocava i contorni di tutto, c’era la cognizione dell’esserci, malgrado tutto il resto, l’infinita mole dell’universo, che sta seduto su di noi, come un elefante su una colonia di batteri. Eppure, ogni singolo batterio, è lì che si perde nei pensieri, nelle percezioni. Non è che questo, la vita.
E ancora ho immagini, di alcuni boschi in cui sono andato a passeggiare. Alla ricerca di funghi o di chissà cosa. Trascinato per lo più da qualche parente adulto. Ora quei boschi, a quarantatre anni vorrei ritrovarli, tutti. Se solo sapessi dove sono, vorrei partire. Perché?
È questo il mistero. Per ritrovare ogni respiro perduto, ogni pensiero lasciato su quelle foglie che coprivano il terreno ammorbidito dall’umidità, prima di essere strattonato altrove.
Così quelle foglie, quelle terre materiche, nella pittura di Michele Dolz, mi riportano l’odore di quei luoghi, che non posso ritrovare su nessuna mappa geografica, ma che appunto, forse, posso riconoscere dal profumo.
Nell’ultimo progetto, presentato a Napoli, sono diversi tecnica e soggetto, ma non cambiano le circostanze attuative del suo lavoro. Alcune tele riportano stampati in grande formato, i volti di uomini e donne che non sappiamo identificare e che pure ci sembrano appartenere a qualcosa che ci riguarda. Possiamo tirare fuori ogni tela da un cassetto di un vecchio comò e toccare la stoffa su cui i tratti di quei volti sono impressi, modificandoli, continuamente, attraverso le pieghe e le tensioni prodotte delle nostre mani. Al di là della loro forma originale, queste immagini diventano necessariamente figure manipolate, visi da ricostruire, da ricercare. Ancora una volta ci muoviamo seguendo delle tracce, l’odore del tessuto, del legno di vecchie cassettiere per la biancheria. Chi stiamo allora cercando in quei volti? Io questo non posso dirlo, perché ognuno si espone ad un’opera d’arte come alla saggezza di un oracolo che possa restituirgli qualcosa di perduto.
E allora è questo che dobbiamo chiederci. Cosa abbiamo perduto?
Lucrezia Longobardi
SULLA DIMENTICANZA
Nel tempo attuale è noto un certo tipo di meccanismo che potremmo definire della “dimenticanza”, di cui tutti, o quasi, siamo vittime. La società viaggia a velocità sempre più sostenute, i social dettano le mode e le politiche sono, perlopiù, ridotte a claim elettorali che poco contatto hanno con il principio del governo. Tutto è istantaneo, fugace, persino la memoria.
Il risultato di questa combinazione è una diffusa assenza di sensibilità. Una sensibilità endemica, fatta di ascolto per quelle piccole eppure essenziali note a margine della vita; composta dall’attenzione verso l’altro inteso come uomo, cosmo, animale e fratello.
In questo senso Napoli è una città interessante da osservare. Tra gli atteggiamenti che hanno costituito, attraverso i secoli, le sue liturgie culturali, c’è la cura per i defunti, un’attitudine nata in maniera naturale nel tardo Cinquecento e ancora oggi praticata. Le cosiddette “capuzzelle” sono i resti anonimi, i teschi ormai privi di un’identità terrena che, accuditi dal popolo napoletano, vengono fatti oggetto di preghiera perché la loro anima dispensi una grazia in cambio di un aiuto a passare dal Purgatorio al Paradiso. Un piccolo negoziato fra vivi e morti, una dinamica che potrebbe essere inscritta in quell’azione di mutuo soccorso da sempre agita dal popolo partenopeo. È questo il punto di contatto che ha portato Michele Dolz a scegliere la preziosa Chiesa del Purgatorio ad Arco come spazio ospite per il suo progetto Umanità senza nome. Capitolo 2.
L’artista di origini spagnole, negli anni, così come i napoletani hanno ripescato ossa e crani da mucchi di reliquie anonime prendendosene cura, ha raccolto e conservato, a sua volta, foto ritratti di fine Ottocento, volti ormai dimenticati, senza un’identità, lasciati nelle ceste dei mercatini come oggettistica qualunque. L’atto di cura praticato da Dolz trova un punto di tangenza con l’usanza napoletana, e nella chiesa ipogea, amplifica, con rigorosa compostezza, questo sentimento che attiene al recuperare storie umane.
I ritratti, stampati e lavorati su teli di grandi dimensioni, conservano un’aura che viene loro dal tempo che le ha portate fino a noi.
Dolz è, principalmente, un pittore, e in questa sua particolare deriva alla ricerca di volti non cessa di elaborare raffinate stratificazioni e velature che si aggiungono
Sono quelle le immagini che mi sono rimaste più impresse di quegli anni.
Perché lì, in quel vetro bagnato che sfocava i contorni di tutto, c’era la cognizione dell’esserci, malgrado tutto il resto, l’infinita mole dell’universo, che sta seduto su di noi, come un elefante su una colonia di batteri. Eppure, ogni singolo batterio, è lì che si perde nei pensieri, nelle percezioni. Non è che questo, la vita.
E ancora ho immagini, di alcuni boschi in cui sono andato a passeggiare. Alla ricerca di funghi o di chissà cosa. Trascinato per lo più da qualche parente adulto. Ora quei boschi, a quarantatre anni vorrei ritrovarli, tutti. Se solo sapessi dove sono, vorrei partire. Perché?
È questo il mistero. Per ritrovare ogni respiro perduto, ogni pensiero lasciato su quelle foglie che coprivano il terreno ammorbidito dall’umidità, prima di essere strattonato altrove.
Così quelle foglie, quelle terre materiche, nella pittura di Michele Dolz, mi riportano l’odore di quei luoghi, che non posso ritrovare su nessuna mappa geografica, ma che appunto, forse, posso riconoscere dal profumo.
Nell’ultimo progetto, presentato a Napoli, sono diversi tecnica e soggetto, ma non cambiano le circostanze attuative del suo lavoro. Alcune tele riportano stampati in grande formato, i volti di uomini e donne che non sappiamo identificare e che pure ci sembrano appartenere a qualcosa che ci riguarda. Possiamo tirare fuori ogni tela da un cassetto di un vecchio comò e toccare la stoffa su cui i tratti di quei volti sono impressi, modificandoli, continuamente, attraverso le pieghe e le tensioni prodotte delle nostre mani. Al di là della loro forma originale, queste immagini diventano necessariamente figure manipolate, visi da ricostruire, da ricercare. Ancora una volta ci muoviamo seguendo delle tracce, l’odore del tessuto, del legno di vecchie cassettiere per la biancheria. Chi stiamo allora cercando in quei volti? Io questo non posso dirlo, perché ognuno si espone ad un’opera d’arte come alla saggezza di un oracolo che possa restituirgli qualcosa di perduto.
E allora è questo che dobbiamo chiederci. Cosa abbiamo perduto?
al materiale fotografico originario, aggiungendo in questo modo un suggestivo e delicato elemento che ha a che fare con l’organicità del tempo, quasi riuscisse, alchemicamente, a concettualizzare e dare forma al secolo, ai giorni ed ai minuti trascorsi e scivolati su quelle superfici stampate.
L’allestimento di questa tappa napoletana del progetto, tenta di riportare a una dimensione domestica questi ritratti. Stipati in quattro grandi comò novecenteschi, le opere sono piegate e conservate come fossero un corredo antico e mostrato da due signore dei vicoli circostanti la chiesa che, come per le adozioni delle “capuzzelle”, si prendono cura di queste figure bidimensionali. Rafilina e Patrizia trascorrono tutti i giorni alcune ore intente a piegare e svelare le opere, raccontando il loro rapporto con le anime perse iniziato oltre quarant’anni fa.
L’intersezione tra il culto dei morti napoletano e la ricerca di Michele Dolz mostra come il recupero della memoria possa essere un potente strumento per connettersi non solo con la nostra comunità, ma anche con un tessuto più ampio che è, poi, costituito dall’umanità intera. Questo ricordare e, quindi, rendere omaggio a ciò che è trascorso e non c’è più, non è solo un modo per onorare coloro che ci hanno preceduto, ma anche un mezzo per comprendere e interpretare il presente, fornendo un contesto e una prospettiva che arricchiscano la nostra esperienza del mondo e quel bagaglio sensibile - estremamente importante - per restare umani.
CONVERSAZIONE
TRA GIACINTO DI PIETRANTONIO E MICHELE DOLZ
Gicinto Di Pietrantonio: Tu usi indifferentemente sia la pittura che la fotografia, come e perché scegli di esprimerti con l’uno o l’altro mezzo?
Michele Dolz: La mia formazione è di pittore ed è quello che preferisco fare. Ma a volte utilizzo anche la fotografia non come prodotto finale dell’opera ma come una parte di essa, che alla fine è sempre pittorica almeno nello spirito. Ho fatto dei collage mescolando ritagli di foto con la stesura del colore, ho fato una sorta di mosaici fotografici con molte foto attaccate vicine, e altro. In questo caso, come già nella mostra precedente a Parma (capitolo 1), le foto non sono nemmeno mie, anzi sono dell’Ottocento. Ma hanno sopra l’intervento pittorico, le macchie, la corrosione dell’inchiostro.
G.D.P.: Come hai scelto le foto che hai utilizzato per questi lavori in mostra, perché queste e non altre?
M.D.: È da molti anni che mi interesso della nascita della fotografia e del cinema, dei loro primi passi. Ciò mi ha portato a cercare e acquistare delle foto antiche, in particolare i ritratti. Non si trovano facilmente, ma con un po’ di pazienza... Mi impressiona la “verità” di questi volti, che sono di persone vive e che hanno il crudele ma sublime realismo della vita vera. I ritratti pittorici, per quanto perfettamente eseguiti, erano all’epoca un po’ esangui, fissi, congelati. Qui invece no, con mezzi ben inferiori restituiscono una verità viva. Ora, Walter Benjamin, parlando proprio di questi ritratti li chiamava “umanità senza nome”, perché già nella sua epoca erano dei perfetti sconosciuti. Ora lo sono molto di più, sconosciuti ai loro stessi discendenti. Mi inquietano, vorrei domandare: chi sei? Perché mi guardi così? Cosa hai fatto nella vita? Chissà quante storie interessanti.
Poi queste foto hanno un valore, diciamo così, democratico, perché per la prima volta tutti potevano farsi un ritratto a poco prezzo e regalarlo agli amici, a volte con dedica.
Ho amato molto i lavori di Boltanski e riconosco che c’è qualche affinità. Ma Boltanski si poneva come archivista e a me questo non interessa. Anzi, in questa mostra le immagini non sono neanche esposte: bisogna aprire i cassetti, tirarle fuori e guardarle. Ma le immagini sono talmente grandi che chi le guarda tenendole in mano si sente sopraffatto da quel volto enorme che lo guarda e quasi lo interroga.
G.D.P.: Parli di verità che è ciò che tutti cerchiamo, ma sappiamo che la fotografia, pur nel suo “realismo”, non è mai né reale, né vera, perché è comunque una costruzione. Il solo fatto dell’inquadratura presuppone una scelta, un punto di vista e dunque è una verità parziale. D’altra parte anche la messa in posa delle persone ritratte è un’azione costruita, infatti oltre alla posa ce lo dice l’abbigliamento delle persone che non sono colte per caso, ma che si sono vestite per essere fotografate, insomma si può dire che recitano per la foto.
M.D.: Indubbiamente. Quei primi fotografi avevano in mente la ritrattistica pittorica, l’unica che conoscevano, e cercavano di restare in quell’alveo estetico. Già nel 1860 tutti disponevano di studi attrezzati con sfondi di paesaggio, per esempio, o con mobili e piante. La posa veniva studiata e via dicendo. E tuttavia c’è in questi volti una vivezza tale che è uno dei motivi per cui li ho deturpati con macchie di diverso tipo. Una volta fui ospite in un’antica casa sul lago Maggiore e mi assegnarono la stanza padronale. C’era lì un grande ritratto fotografico di una anziana signora, sempre dell’Ottocento, che mi fissava in un modo che non riuscivo a dormire.
G.D.P.: Una delle caratteristiche delle foto, soprattutto di quelle “vecchie”, di cui anche tu ti servi, è quella dello sguardo. Dovremmo essere noi a guardarle, e certamente lo facciamo, ma poi ci accorgiamo che esse ci guardano più intensamente di come noi guardiamo loro. Eppure sono solo delle immagini. Perché credi accada questo? Inoltre più le foto sono antiche e più abbiamo la sensazione che lo sguardo dei fotografati sia intenso. Forse perché ritraggono persone che oramai sono morte e, come dicevano gli antichi greci, la morte ha a che fare con lo sguardo. Difatti, quando uno moriva dicevano che aveva guardato per l’ultima volta e da lì credo derivi anche la tradizione di chiudere gli occhi al defunto.
M.D.: Non so se ti è mai capitato, ma non c’è niente di più spaventoso di un defunto con gli occhi aperti. In genere io mi sono sempre rifiutato di visitare luoghi di esposizione di cadaveri, mummie ecc. C’è, o c’è stata, una vena macabra molto forte anche nel cattolicesimo, che credo non abbia nulla a che vedere con la memoria e la preghiera per i defunti. Questa mostra, paradossalmente, è di persone vive, anche se sono tutte morte. Per questo ci “guardano”, credo. A me interessa la memoria, mi piacerebbe che in qualche modo si conservasse, come una traccia registrata, la vita delle persone comuni. È impossibile, naturalmente. Anche noi finiremo nel dimenticatoio... Beh, almeno io e te abbiamo lasciato qualche libro e qualche quadro.
G.D.P.: Un’altra delle caratteristiche della fotografia è quella di contenere il tempo, che è sempre un tempo andato. A me pare che oltre a questo tempo-memoria le opere in questione testimoniano anche un tempo in divenire, dunque lo scorrere del tempo. Questo lo vedo nelle macchie di colore che gli metti sopra. Il dripping Per cui se la messa in posa delle immagini fotografiche ha a che fare con il ritratto che è un fissare il tempo, le macchie da te aggiunte hanno a che vedere con il tempo che passa, fanno pensare a qualcosa, alla vita che vive e vivendo si consuma. Le immagini sono infatti delle immagini consumate.
M.D.: Sì, questa è la mia intenzione. Aggiungo delle macchie, le imbruttisco, per significare le ferite del tempo, da vivi e da morti. Naturalmente questo non è dichiarato, spero che sia sufficientemente comunicativo perché la gente lo capisca senza parole, come deve fare ogni arte. Tu, per esempio, lo hai capito.
G.D.P.: Inoltre, tornando alla memoria, che tipo di memoria ti interessa rivelare, quella personale o quella collettiva, tenendo anche presente che ci sono studi che dicono che la memoria e il tempo non vanno tanto d’accordo, più passa il tempo e più essa diventa fallace, sbiadisce. È di questo appannamento del ricordo, che è poi una riscrittura della storia, che parlano le tue opere?
M.D.: Per questa mostra ho scelto ritratti di singoli. Come ho già detto, mi intriga la loro vita ornai sconosciuta per sempre. Ho anche delle foto di gruppi familiari o – già del Novecento – di gruppi in azione. Questo richiederebbe un altro pensiero, nel caso ci volessi lavorare. Comunque sì, le macchie – a volte anche violente – sono il tempo passato ma anche la frustrazione di non poter sapere nulla dell’effigiato.
G.D.P.: Ogni opera e per estensione mostra che usa la fotografia è anche una riflessione sulla realzione tra arte e fotografia, che sebbene abbastanza superata, continua sottotraccia a persistere. Nadar diceva che «non esiste la fotografia artistica, ma che nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare». Come pensi che le tue opere rispondo a questo dibattito?
M.D.: Non posso essere più d’accordo con Nadar dopo una vita intera nel mondo dell’arte. C’è chi vede e c’è chi non vede. E l’arte non si può spiegare a parole. Ora le foto di Nadar hanno quel qualcosa in più, inspiegabile ma che si vede in termini di profondità psicologica. È uscito un libro meraviglioso, una specie di album di ritratti di Nadar (Abascondita 2010), basta sfogliarlo. E non invano fu il primo a capire gli impressionisti pur lavorando in direzione opposta: è la condivisione di quel metalinguaggio indefinibile dell’arte.
La foto che ho scelto qui, tra le varie centinaia che posseggo, non sono opere d’arte. Il fascino che provo, semmai, è nelle persone stesse. Ho una foto di un mio bisnonno, nato nel 1860, che è una brutta foto, ma io di quel giovane uomo so tante cose. Così mi piacerebbe con tutti.
Giuseppe Stampone
QUALCOSA DI NUOVO E DI VERO
Parlare dell’opera Umanità senza nome. Capitolo 2 significa parlare di una sintesi del lavoro di Michele Dolz. Per sintesi intendo una forma evoluta che, in questo specifico caso, trasforma una bidimensionalità in tridimensionalità, una circostanza che riesce a dare allo spettatore una percezione ancora più spirituale del lavoro dell’artista, attraverso l’emergere di una più oggettiva spiritualità. Dolz ha sempre prediletto la pittura nella sua ricerca, un segno che obbliga il fruitore ad un rapporto di contemplazione, di “distanza”. Nella mostra napoletana, invece, mediante un allestimento nuovo alla pratica dell’artista, lo spettatore ha un rapporto fisico con l’opera, in un insieme sinestetico che coinvolge totalmente l’altro. In questo lavoro specifico, realizzato all’interno della Chiesa del Purgatorio ad Arco di Napoli - c’è una scelta precisa che mira a valorizzare il lavoro dell’artista stesso.
È palese, dunque, come questo raffinato lavoro abbia inevitabilmente coinvolto il luogo, valorizzato grazie al display divenuto dispositivo di attivazione che obbliga lo spettatore ad “un’inciampo”, un’interazione all’interno dello spazio.
Il lavoro è, in sé, una sorta di archivio, una memoria di cui Michele Dolz non ha documenti né connotati di alcun tipo. Grazie alla sua fede, alla sua sensibilità ed alla sua forma mentis, ha ri-donato vita all’essere umano ritratto in quelle fotografie, ponendo al centro del lavoro l’uomo e la sua esistenza senza ideologie, senza narrazioni di alcun tipo.
Un atteggiamento, questo, che si manifesta nella pratica quotidiana di Michele Dolz.
Quando ci siamo conosciuti non sapevamo nulla delle nostre storie private ed io mi trovavo in uno dei momenti più brutti della mia vita. Stavo toccando il fondo e lui lo ha percepito, mi ha visto.
Ancora ricordo come ogni sera mi chiamava per salutarmi, ma non per farlo in nome di qualcuno o qualcosa, ma per salutarmi da amico, da essere umano.
Michele è un uomo che, talvolta, dimentica tutto per riportare tutto all’emotività, al rapporto fisico, alla parola parlata, al non detto, al percepito. Quest’opera rappresenta la forma del rapporto che ho avuto con lui.
Anche io, all’inizio della nostra frequentazione, ero un’immagine come tutte le altre che lui ha tirato fuori dall’archivio. Anche io sono stato oggetto di un ingrandimento, che ha richiesto tempo, curiosità e la volontà di capirmi come uomo prima ancora che come artista a mia volta. La percezione che Michele Dolz ha dell’essere umano è quella che vede questa creatura al centro dell’universo, una visione ortodossa, ma anche pre-rinascimentale, onirica che riconduce ad un’armonia naturale tra uomo e spirito.