Leonardo continua a ispirare

Il cenacolo di Nicola Samorì

IL CENACOLO NON È FINITO

Era il 25 gennaio 1787 quando Johann Wolfgang von Goethe, nel suo soggiorno a Roma, venne a contatto con il Cenacolo di Leonardo. «Nella casa di un sacerdote che, pur privo di talenti innati, ha consacrato la sua vita all'arte, abbiamo veduto interessanti copie di grandi quadri da lui riprodotti in miniatura. La più notevole è quella della Cena di Leonardo da Vinci a Milano. È colto il momento in cui Cristo, che siede a tavola in lieta familiarità con gli apostoli, annunzia loro: “C’è uno tra voi che mi tradirà!”. Speriamo di poterci procurare un’incisione su rame di tale copia, o di altre ancora in lavoro. Sarà un dono veramente grande quando una fedele riproduzione sarà messa a disposizione del pubblico». Grazie a quel prete copista Goethe s’innamorò follemente del dipinto leonardesco. Ma solo nel maggio 1788 poté visitarlo dal vero a Milano e, preso da una violenta emozione, scrisse al granduca Carlo Augusto di Sassonia, signore di Weimar: «Il Cenacolo di Leonardo da Vinci è una vera chiave di volta nei miei concetti artistici. È unico nel suo genere, non vi è nulla con cui possa essere paragonato».

     Non aveva visto i cenacoli fiorentini? Certo il cenacolo più famoso della storia dell’arte, il cenacolo per eccellenza, è quello di Leonardo, finito nel 1498, ma Leonardo non fu l’inventore del tipo iconografico: attinse a una tradizione fiorentina nel suo tempo già lunga e fiorente. Portò a Milano il cenacolo fiorentino. Solo che Leonardo è Leonardo.

     Comunque sia andata, la commozione di Goethe s’intrecciò con l’impagabile lavoro di Giuseppe Bossi, segretario dell’Accademia di Brera, il quale aveva ricevuto l’incarico di fare una copia del Cenacolo destinata a una sua traduzione in mosaico che la fissasse in eterno. E il Bossi non si limitò a una cosa qualunque. Disegnò dei «lucidi» di tutti i particolari e, cercando di avvicinarsi il più possibile all’originale, intraprese una lunga ricerca che diede origine a quattro volumi dedicati al capolavoro. Era il 1810. Ancora oggi godiamo di questa eccezionale documentazione. Ma accadde che nell’estate 1817 Carlo Augusto di Sassonia fece un viaggio a Milano alla ricerca di opere d’arte da acquistare e si prese i disegni e i testi di Bossi. Proprio allora a Weimar Goethe stava lavorando alle memorie del suo viaggio in Italia e, visto quel materiale, decise di scrivere un saggio sul Cenacolo, uscito nel 1818. Cominciava l’interesse moderno per il capolavoro vinciano.

     Capolavoro lo è ma, come è ben noto, ha avuto da sempre, già in vita di Leonardo, problemi di conservazione a causa della tecnica inadatta usata dall’artista. Da lì l’interesse per le copie. Eppure è stata proprio l’abbondanza di copie a fare di un «affresco» in fondo poco accessibile una sorgente continua d’ispirazione.

     L’ultima cena, non poteva essere altrimenti, è iconografia tra le più diffuse nell’arte cristiana, fin dalle catacombe. Nel rinascimento si possono distinguere almeno tre line di sviluppo. Una è quella fiorentina, e quindi di Leonardo, erede diretta delle cene medievali con la sua frontalità ed essenzialità. Un’altra, quella veneta, che vede in Tintoretto e Veronese un’impostazione ben più movimentata, sia nell’inquadratura sia nel numero e nei gesti dei personaggi. La terza è quella fiamminga, che congrega gli apostoli intorno a una tavola quadrata e che arriva fino al capolavoro di Rubens, presenta a Brera in una delle diverse versioni.

     Il cenacolo leonardiano è, fra tutti, i più copiato, stampato, riprodotto in ogni modo. E a tempo stesso è stato fecondo di altre cene più o meno direttamente ispirate. Basta citare il grande gruppo scultoreo (1531) di Andrea da Corbetta nel Santuario di Saronno, ma la produzione è durata fino ai nostri giorni, anche in forme molto popolari da tenere in casa o nelle chiese.

     Della sua storia recente è utile ricordare che nel 1980 il Cenacolo fu dichiarato patrimonio dell’umanità e che nel 1999 Pinin Brambilla consegnò l’opera dopo un restauro minuzioso durato ventidue anni. Oggi, tolte le ridipinture e i resti di restauri dannosi, di Leonardo è rimasto poco… ma sicuro.

Ma oggi, continua il Cenacolo a ispirare gli artisti come nel passato? È la domanda che si pone, nell’ambito delle celebrazioni di Leonardo, la piccola ma sostanziosa mostra della Fondazione Stelline a Milano, proprio dirimpetto al Cenacolo vinciano. Curata da Demetrio Paparoni, raduna otto opere di artisti contemporanei di fama internazionale, alcune prodotte direttamente per l’esposizione, altre comunque recenti ed esplicitamente collegate al Cenacolo. Paparoni affianca alla mostra un sostanzioso catalogo Skira con quel che ci si aspetta sempre dal catalogo: un approfondimento, qualcosa in più rispetto a quello che è già esposto e tutti possono vedere e giudicare. Finalmente.

In un ampio excursus sull’ispirazione di artisti del XX e XXI secolo al Cenacolo vinciano, Paparoni ci riporta a quel che andrebbe considerato il primo caso: Il sacramento dell’ultima cena, di Salvador Dalí (1955), dove il riferimento è evidente ma l’opera è autonoma; quello strano personaggio di Dalí, che diceva di essere cattolico convinto, l’ha trasformata in un cenacolo di preghiera dall’aria fortemente mistica.

     È proprio ciò che cerca questa mostra: illuminazione leonardiana diretta ma indipendenza espressiva e stilistica. E il passo fondamentale lo fece Andy Warhol con la memorabile mostra Il Cenacolo tenutasi proprio alle Stelline nel 1986 curata e sostenuta da Alexandre Iolas. Warhol trasformò il dipinto leonardesco in un’icona pop; senza snaturare il carattere sacro, produsse un centinaio di lavori sul tema. Naturalmente l’operazione suscitò entusiasmi e polemiche, ma quelle immagini sono una pietra miliare della storia recente dell’arte e un interessante focus sulla spiritualità cattolica di Warhol ultimamente scoperta. Aperta la strada, ecco tanti artisti che tornano ad abbeverarsi al genio vinciano. Qui vengono citati tra gli altri Mary Beth Edelson (1972), Andrés Serrano (1990), Marlen Dumas (1991), Vik Muniz (1998), Hiroshi Sugimoto (1999-2012), David LaChapelle (2003), Zhang Huan (2012). Tutte opere interessanti per diversi aspetti, nessuna apertamente blasfema, alcune senza afflato religioso (che non si può chiedere a chi non ce l’ha).

     Ancora una volta si riafferma la teoria di Aby Warburg: l’arte vive di storia dell’arte (e quando non è così se ne vede tutta la miseria). L’immagine ritorna sempre, sempre carsica, sempre trasformata, l’immagine è insepolta, come scriveva Georges Didi-Huberman.

     La selezione di Paparoni non si può dire propriamente antologica. Anche in considerazione dell’abbondante paccottiglia che gira in materia di «ispirazione» al Cenacolo, egli ha portato artisti di fama mondiale, apprezzati e amati e, non ultimo, consacrati dal mercato. È una sorta di rassegna del meglio in questo soggetto. E con sorprese.

     Robert Longo ha disegnato in grande scala il volto di Cristo come appare dopo il restauro, accentuando con i carboncini il chiaroscuro e le crepe. Ne viene un’immagine di forte impatto che amplifica di molto l’intenso raccoglimento del volto originale vinciano. Non si rimane indifferenti di fronte a questo volto. Un sacchetto di cuoio con le monete, appeso alla cornice, ricorda il tradimento di Giuda e fa guardare questo Cristo con ancor maggiore struggimento. L’artista poi ha voluto l’opera esposta su una parete rossa, immergendo così idealmente il corpo di Cristo nel vino dell’ultima cena, che è il sangue versato in remissione dei peccati.

     Anish Kapoor ha scelto due lavori che, nelle parole del curatore, sono «come una prefigurazione della passione e del sacrificio che da lì a poco si sarebbe consumato» e che è teologicamente inseparabile dalla Cena. «Nel prefigurare la Passione e il sacrificio Flayed II dà immagine a un bagno di sangue che impregna come una sindone l’intera tovaglia, Untitled diviene invece una visione macroscopica di una ferita».

«Nell’opera di Nicola Samorì Gesù offre letteralmente ai suoi commensali il suo corpo raschiato dal supporto e adagiato sulla tavola. La pelle pende da un corpo liberato dalle sembianze umane. Scura e raggrinzita racchiude in sé tracce di quelle sembianze, come il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Cristo. Privato della sua carne, Cristo si trasforma in una sagoma di luce: di lui rimane solo il bagliore della lastra di rame che fa da supporto all’intero dipinto e ci trasmette il senso del sacro delle antiche icone». Gran bella opera, questa di Samorì, dipinta con acidi e olio, che idealmente ha portato avanti il processo di consunzione del dipinto vero.

Masbedo (Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni) presenta un video sull’importanza «di prendersi cura delle testimonianze della cultura per mantenere in vita valori che sono a fondamento della nostra civiltà». Sono le mani di Pinin Brambilla che indicano alcuni dettagli del restauro su fotografie. «L’opera non ha intento documentativo. Come nel dipinto di Leonardo gli apostoli parlano anche con le mani, qui sono le mani a raccontarci l’esperienza di cui Madame Pinin è stata protagonista nel tentare di riportarci a una versione dell’opera il più possibile vicina a quella voluta da Leonardo».

Due pittori cinesi, Wang Guangyi e Yue Minjun, ben noti a tutti, sono comprensibilmente lontani dallo spirito del Cenacolo sia per cultura sia per religione. Ma forse è proprio questo che li rende interessanti. Wang Guangyi vede nelle sagome delle figure le montagne della sua terra e lascia delle scolature evocando l’antica pittura cinese. Minjun, famoso per gli uomini dalla perenne risata stupida, presenta un’opera molto concettuale, forse troppo.

     Contemporaneamente esce per i tipi di Skira il libro Maurizio Galimberti. Il Cenacolo di Leonardo da Vinci, a cura di Federico Mininni. Galimberti è un fotografo di fama internazionale che elabora delle composizioni a mosaico in cui il soggetto viene scomposto in numerosi scatti da diverse prospettive. Ne deriva qualcosa di analogo al cubismo, che tentava di comporre sul piano orizzontale angolature differenti del soggetto. Ma Galimberti è luminoso, le sue immagini respirano e ci riportano all’inevitabile frammentarietà del nostro sguardo. Qui applica il suo obiettivo multiplo al dipinto di Leonardo.

     Galimberti è creatore del Movimento Dada Polaroid: la sua fotografia è stata sviluppata attraverso il tempo in una dimensione di ricerca e di scoperta del ritmo e del movimento. Applicare tutto ciò a un capolavoro idolatrato come il Cenacolo è indici di un coraggio non comune. Il risultato è godibilissimo in questo libro di grande formato da tenere e sfogliare in casa.

 Michele Dolz, Studi Cattolici, maggio 2019