MA È QUESTO IL PARADISO?

Gian Maria Tosatti alla Stazione Centra di Milano

Date

Febbraio 2025

I magazzini della Stazione Centrale di Milano. Brutti posti. Bui, freddi, umidi, gocciolanti. Sconsolatamente vuoti. Sono la tristezza stessa, la depressione, la notte oscura. Non ti vien voglia di entrare e, se entri, non vedi l’ora di scapare. Ma nella fugga la via antistante, via Fabrizio Gatta, ti sembra uguale in questa metropoli grigia e abbandonata. Un bar, ci vuole un bar per far la pipì! E il bar, lontano, è ugualmente misero. Le auto son malinconiche. Le persone inebetite. Le vie girano senza senso e senza gente. Perché è domenica, forse? Ma non abbiamo altro tempo.

      Torno a casa e tento di scrivere. Inutile, non è possibile in questo sconquassamento, dopo aver visto quel che ho visto, dopo che mi si è rigirata l’idea di questo mondo in cui vivo da una vita. E lascio passare i giorni, una settimana e più fin quando non è più possibile tacere.

      Gian Maria Tosatti è il colpevole senza colpa. Senza colpa, come me, perché non fa che riflettere sul mondo che ci è toccato in sorte. E né lui né io, amici e confidenti, apparteniamo del tutto al circo che ci è toccato in sorte. Lui però mette le dita sulle piaghe perché brucino. È andato proprio in quei magazzini a fare la sua installazione. E a chiamarla Paradiso.

       Aidan ripeteva: ma cosa abbiamo fatto! E non si dava pace. Era seduto su una panchina a Villa Borghese. Roma ai suoi piedi non profumava più di gelsomino come quando i tramonti ti infiammavano di rosso e i terrazzi avevano gerani e sedie rotte e venivano larghissimi stormi di uccelli a sporcare. Era bello, era bello. Che abbiamo fatto a questa Roma bastarda perché le cupole non riverberino più e ci siano solo turisti e acchiappaturisti e nessuno dei due capisce niente. Hanno ridipinto le facciate coi soldi del governo, solo quelle dei palazzi nobili ovvio. E così le vie del centro sono ancora più anonime, quanto vorrei che un ragazzino le scarabocchiasse per dire almeno io sono vivo. Ma a ben guardare a nessuno importa del ragazzino, la colpa è del governo.

      Ci conosciamo ancora? Mi disse Ralph dopo anni. Erano troppi anni, non ci avevo pensato, non avevo pensato a Ralph. Tutto ciò che ci venne in mente fu di andare a prendere una bibita in un bar all’aperto per poi, con una stretta di mano, lasciar scorrere altri anni, altri secoli, che quasi mi sembra più vicino Caravaggio. Sì, io voglio bene a Caravaggio, che fosse un tipaccio è tutto da dimostrare e poi non me frega niente. Gli voglio bene, è uno di famiglia. E poi penso, la sua era una Roma in costruzione, probabilmente sporca e cialtrona ma sognatrice, vigorosa, mistica e criminale, poco attaccata alla vita.

      Aidan, cosa abbiamo fatto! Gian Maria alla stazione ha installato una volta dorata, forse di quel tempo, ma ora cade a pezzi, per terra calpesti l’oro staccato che non vale niente perché non importa nulla a nessuno. Sai che ho pianto, Aidan amico mio? Io non ho mai avuto oro, che me ne faccio? Ma questo disfacimento mi lacera, sono solo qui senza nessuno che ascolti, potrei essere sul Monte Bianco a urlare ai venti indifferenti. Sta cadendo l’oro! L’oro dei secoli, gli artigiani, la devozione, la nostra testa… Piango seduto per terra su questa neve squagliata perché la gente passa e non capisce, non vede, non considera. Piango perché nessuno verrà a proporre un’altra volta magari più moderna, ma resteremo sdraiati sulle rovine pensando di essere migliori. No, non pensando a niente.

      La conosco bene Milano. Il Cimitero Monumentale è altare alla memoria, morti che si vorrebbe vivi, tombe eccessive per dire ci sono ancora. I sepolcri sono sempre la più fastosa bugia, ma tant’è. Quel che mi tocca sono gli elenchi delle persone sepolte. Questi sono veri e semplici. E poi ci sono gli elenchi dei caduti in guerra incisi su pubbliche lapidi e questo è bene perché già è assurdo che siano morti nella più assurda delle azioni umane, almeno ricordiamoli.

      Sono passato in un altro magazzino nella smisurata installazione di Gian Maria. Una vasta lapide, ma proprio grande grande, più di quelle del cimitero o dei caduti. I nomi sono scritti con caratteri dorati in rilievo. Roba che costa. Mi avvicino schizzando l’acqua e la neve… Son angeli! Un elenco infinito di nomi di angeli con affianco il loro celeste incarico. È vecchia tradizione medievale e soprattutto ebraica, che di suo non mi piace, cose da gente che non aveva nulla da fare. Però gli angeli, questi o altri, ci sono.

      Il tempo ha preso a martellate la pietra, frantumi giacciono a terra, altri stanno per staccarsi e il disinteresse farà il resto fino al completo oblio. Non abbiamo altri angeli da rimpiazzare. Ne rimarremo senza in questa oscurità fredda e umida.

      Sui muri di tutti i magazzini grandi lettere dorate compongono frasi della Scrittura. Troppo buio per vederle, troppo sbiadite, troppo in latino. E passiamo, passiamo senza guardare perché lo sforzo sarebbe troppo e perché tanto non ci importa.

      In uno degli spazi resta un tentativo d’illuminazione. Due grossi lampadari in vetro con tante candele vere, alcune ancora accese, altre soffocate dall’umidità. Una delle lumiere è a mezz’asta, l’altra è caduta a terra, alcune candele cocciutamente accese. Ma si spegneranno e non ci farà niente di restare al buio. Ci accontenteremo perché questi sono strumenti del passato. Ma non avremo nulla in cambio.

      Aidan, che abbiamo fatto. Mio nonno credeva fortemente al Paradiso e mancò poco che si lasciava le penne per esso. A noi hanno detto che il paradiso si costruisce in terra. Ma è questo che abbiamo fatto.

Michele Dolz