Felice Casorati, la visita a Palazzo Reale non ha eguali. Per la verità di una tristezza che non ha confin
Grande mostra di Felice Casorati a Palazzo Reale di Milano
Date
Aprile 2025
Esco dalla visita alla mostra di Felice Casorati a Palazzo Reale di Milano. È d’obbligo, non so bene perché, un caffè da Giacomo sotto il porticato. E seduto al tavolino cerco di prendere qualche appunto, cerco di capire – meglio – che cosa mi ammalia ogni volta che vedo questo artista. Camminando per le sale, con la sciatica a manetta, pensavo è il migliore, è il migliore, e lo paragonavo con i suoi compagni di strada, Emilio Sobrero gli assomiglia un po’ ma è troppo vero, idem per De Chirico, Funi, Marussig, Oppi e compagnia. Lui è più vecchio, e più primitivo, più fantasioso, più classico, più musicale, più sobrio, più architettonico, più spaziale, più. Ne sarò innamorato? No, non di lui, di Kiefer semmai. E sono sobbalzato, per mia ignoranza credo, quando ho visto Kiefer in Casorati. Pazzesco. C’è un quadro del 1914 che si chiama La via lattea dove una donna o un uomo non si capisce giace a terra mentre il resto della tela è un cielo stellatissimo. Casualità? Ispirazione? Non ha proprio alcuna importanza. Quello o quelli di Kiefer sono di un secolo dopo e l’arte è sempre arte se è vera.
Il caffè di Giacomo è molto forte e buono e anche molto caro. Si mescola al subbuglio che ho dentro. Ecco, ecco, ora lo vedo. C’è tristezza, vera tristezza genuina, una rarità, quella tristezza senza motivo che non piange né rimpiange. Bisogna aver provato questa tristezza, averla amata per esser una persona sensibile. E per essere artista profondo. Sono molti anni che non sopporto più l’arte ridanciana, ultima propaggine borghese del pop, che era una cosa seria. Basterebbe la sala dedicata alle tempere per giustificare la mostra: persone sedute mestamente, alle spalle un ampio spazio vissuto ma vuoto, gamma calibratissima di colori bruni, luce-non luce. Siamo nel 1919.
Poi ti perdi nelle figure architettoniche, ferme ed eterne. È un luogo comune invocare Piero della Francesca, ma è un luogo comune vero. È una bellezza conturbante, da far impazzire. Ed è niente quando si giunge davanti a Silvana Cenni. Bisogna sedersi e non per la sciatica questa volta. Hanno messo una panchina davanti, lo sapevano. Io non la voglio descrivere, meglio una foto. Ma è una delle grandi opere del Novecento mondiale. 1922.
Davvero non so che fare una visione così. Prendere il catalogo e portarlo stretto a casa. E perdonare al buon Felice per i quadri che non sono all’altezza. Silenzio.
Michele Dolz