Il lirismo della sintesi

Dolz attualmente sembra lavorare «in togliere». È uno di quei pittori, cioè, il cui temperamento porta a concentrare, asciugare, rastremare, sintetizzare… Nel suo lavoro di oggi ciò che non è essenziale diviene superfluo, e non viene neppure evocato sulla tela, o allora appare come accennato appena, come labile possibilità d’aggiunta: fantasma trascurabile di un contorno lasciato sul bagnasciuga della pittura, aggallamento quasi defilato di un lacerto dell’oggettività circostante.

Le «creature» evocate qui sono tori e pesci, meduse e uccelli, polipi, gusci, conchiglie e altro, tra muffe e fioriture di patine, tra licheni minerali e colature magmatiche venute a spalmarsi su spazi senza luogo né tempo. Tracce di una vita brulicante eppure congelata in una teca d’arcaico e immobile silenzio, “ritratti” interiori d’improbabili protagonisti come spiati da una fessura aperta nel conglomerato delle ere geologiche…

Non c’è nascita e morte, qui; c’è solo pulsare di cuori e peristalsi muscolari, fremiti di squame e strepiti di zoccoli immobili. Eppure i colori sono opachi e freddi, e rimandano all’orizzonte desolato di un deserto di inaudite solitudini, mentre il corpo fisico degli animali e degli oggetti si consuma di una ruggine inquieta.

L’unica luce di queste creature, di questi reperti sospesi, è il loro lirismo travolgente, l’irresistibile densità di muta poesia che è loro propria. È una liricità che neppure cerca la metafora o l’esplicita evocazione, ma che basta a se stessa ripiegata nel suo nucleo di sentimento e trascolora sul lento impulso che forma l’immagine, che addensa o diluisce a poco a poco i contorni e le sagome. 

Come per le mandrie sciamaniche dipinte sulle pareti delle antiche grotte magdaleniane del Paleolitico superiore, cui visibilmente queste immagini talvolta alludono, quel che è ritratto qui non è solo ciò che si vede ma è ben altro. È il suo sapore interno, il suo midollo concettuale, lo stupore dell’evocazione magica, dell’invocazione emozionale, come fosse – si potrebbe dire – una preghiera muta rivolta a ciò che ci trascende, alla vertigine dell’inconoscibile. Come fosse (posso dirlo?) il portato di una serie di Ex voto multiformi, essenziali e primitivi, umbratili, un po’ misteriosi.

“So che la pittura non morirà mai, perché tracciare manualmente segni è connaturale all’uomo”, ha scritto una volta il nostro artista.

Dunque, l’arcaicità che percorre le sue visioni non è tanto un omaggio al remoto passato della vita, affettuosamente e quasi teneramente stilistico, quanto il segnale forte, per Dolz pressoché obbligato, della continuità delle cose dell’uomo: il portato tattile e perenne delle forme espressive umane, ma è anche – con la medesima intensità e con palpiti di sensibilità forse ancora maggiori – un canto di poesia alla pittura in sé, alle sue infinite possibilità di risonanza con lo spirito dell’uomo.

Quanto all’aspetto “fossile” di queste creature, con la consueta, acuta limpidezza Elena Pontiggia ha recentemente sottolineato in un suo testo che: “a Dolz interessa contrapporre antico e contemporaneo, assenza di vita e vita. Nello spazio della tela disegna una forma che pulsa, palpita, respira e che si staglia sul fondo, anzi si divincola alla stretta della materia. Il fossile in natura è imprigionato nella roccia, ma nella pittura di Dolz è invece libero”.

Dunque per la Pontiggia sono creature che tornano in qualche modo a vivere. Ecco, a me pare che queste creature siano per sempre fissate, anche, a vivere una dimensione che è mentale e sentimentale insieme, rappresentata dagli sfondi sui quali esse giacciono come emblemi di una possibile mitologia, come tracce e tessere di un mosaico di racconti naturali, alla confluenza tra cronache umane e miti sovrannaturali. La loro “fossilitudine” si volge dunque per me – dicevo più sopra – al segno trepidante dell’uomo di Lascaux o della cueva di Altamira: un segno magico, un segno “religioso”, per propiziare, invocare e impetrare, per piegare il naturale e il sovranaturale al nostro bisogno di procurare il cibo con la caccia o spegnere in qualche modo la nostra sete d’assoluto.

Il visionario è l’unico vero realista”, ha sentenziato una volta Federico Fellini. E già mezzo secolo prima Bertolt Brecht aveva scritto: “Tutte le arti contribuiscono all’arte più grande di tutte: quella di vivere”.

È ben vero che Dolz ha una pittura nutrita di sostanza filosofica, di pensiero denso, che si avverte ramificato delle più sottili e sofisticate speculazioni. Eppure la sua è anche e primariamente pittura-pittura per intero, pittura “fisica” di sostanze e velature, di materia cromatica, di vuoti e di pieni. Pittura mai letteraria, mai stucchevolmente dotta, mai pedantescamente formata, perfezionata, finita.

Diversi sentimenti di inquietudine e trepidazione, in lui, si volgono a dettare l’impulso di un gesto che rimane sospeso e interrogante benché sovranamente concluso: l’intuizione di un archetipo.

Ma bisogna stare attenti, poiché spesso il ricorso alla ricerca di forme archetipiche, per taluni artisti, soprattutto tra quelli di oggi più effimeri e superficiali, è solo un mascheramento del loro povero vuoto interiore, è solo il colmare l’evidenza di un deficit di senso. Per Dolz, al contrario, l’archetipico, il primordiale, la radice sorgiva dell’icona non è tanto ridurre la forma alla sua origine primigenia e usarla nel contemporaneo, quanto invece scoprirla portatrice di un valore di simbolo, scaricarla, o rivelarla, in una sua potenza semantica duratura, permanente, che il gesto pittorico accende ed esalta nei suoi termini più minuziosi.

E poi c’è in questi suoi lavori, sopra ogni cosa, ma anche dentro ogni cosa, appunto lo squisito sapore della pittura, il gusto sofisticato di un savoir faire ricercato e composito, la finezza di una tecnica consapevole e coltivata.

Certo, c’è anche quella sua singolare “sottilezza”, quella sua grande semplicità, quel suo molto “levare” – dicevo – che sfiora addirittura una forma di pauperismo, di destrutturazione, talvolta addirittura di rinunzia…

Ma ricordo sempre a me stesso, in casi come questi, che, per dirla con Costantin Brancusi, “la semplicità nell’arte è, in generale, una complessità risolta!”

Giorgio Seveso