L’ARTISTA BAMBINO

Un pomeriggio di primavera del 1887 lo storico dell’arte Corrado Ricci tornava dalla Certosa di Bologna quando fu costretto dalla pioggia a riparare sotto il portico che conduce al Meloncello. E lì fu attirato da alcuni disegni infantili sui muri. Fu come un’illuminazione, come vedere qualcosa di mai visto prima, qualcosa che si apriva alla comprensione di un mondo ignorato. Si mise subito a studiare i disegni dei suoi figli, quelli degli amici dei figli e quelli che si fece consegnare, a centinaia. Ricci fu il primo a guardare i disegni dei bambini come oggetto di attenzione e di studio e ne trasse leggi e costanti, come questa: i bambini, sapendo che «l’uomo ha due occhi e che quindi se ne debbono disegnar due, ricordano che fra i due occhi pende sempre un naso. Che cosa fanno allora? Disegnato il volto con il suo naso di profilo e messi i due occhi di prospetto, dopo essere stati un po’ in pensiero, aggiungono fra questi un secondo naso che si può chiamare il naso soprannumerario». E proprio perché la loro tecnica è quella di descrivere e non di riprodurre ciò che si vede, quando disegnano una casa non di rado si vedranno «trasparire dai muri gli uomini che passeggiano per le stanze, si vedranno per entro i campanili i sacrestani che suonano le campane e le persone che popolano il treno. Tutto ciò insomma che i bambini sanno o, meglio, pensano che ci sia, si deve vedere, nonostante gli ostacoli naturali e artificiali!». È questo un brano del pionieristico e celebre libro L’arte dei bambini che Ricci pubblicò in quello stesso anno.

Cominciava lì un interesse scientifico sull’espressione artistica dei bambini, utile alla psicologia e alla pedagogia che in quel cambio di secolo si sviluppavano nei termini della modernità. Ma fu l’inizio di un dibattito che dura fino a oggi sullo statuto del disegno infantile: è arte? Ricci così lo definiva fin dal titolo del libro, ma era un attributo dato per convenienza e semplificazione o ne era proprio convinto? Sta di fatto che di pari passo a quel nuovo interesse nasceva una diffusa passione internazionale per il disegno infantile come ideale estetico e anche per le forme espressive dette «primitive», come le figure medievali e le realizzazioni dei popoli africani e oceanici. Arrivarono le maschere africane che avrebbero avuto un’influenza determinante, se solo si pensa a Les Demoiselles d’Avignon (1907) che diede avvio al cubismo.

Quella temperie mette a fuoco la mostra dell’attivissima Fondazione Ragghianti di Lucca, nata dall’eredità culturale dello storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti (1910-1987). La rassegna reca il suggestivo titolo L’artista bambino. Infanzia e primitivismi nell’arte italiana del primo ’900, è curata da Nadia Marchioni (catalogo Skira) e risponde a un esplicito desiderio di Ragghianti che, in un saggio del 1969 (Bologna cruciale 1914), affermava la necessità di approfondire i legami tra il disegno infantile, l’arte medievale e la produzione figurativa nell’Italia dei primi decenni del Novecento. La sensibilità per l’infanzia e per il disegno per bambini è dimostrata dalla nascita de Il giornalino della Domenica (1906), Il Giornalino di Gian Burrasca (1907) e altre pubblicazioni. Bisogna dire che l’anima di quei periodici, Luigi Bertelli alias Vamba, fu il miglior imitatore del disegno infantile, in perfetta sintonia con i suoi piccoli lettori. Altro grande interprete ne fu Alberto Magri nei suoi disegni e dipinti anteriori al 1910 (poi diventa più rigido e manierato, più «primitivo» che infantile). Un po’ meno gli altri artisti della mostra.

È molto nota la frase attribuita a Picasso come una delle ultime parole prima della morte: «A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino». Pablo Picasso rimane la vetta dell’arte novecentesca, ma queste parole (diamole per realmente pronunciate) sono più smorfiose che vere: Picasso non ha dipinto mai come un bambino, come non lo ha fatto nessuno, semplicemente perché l’artista adulto non può fare a meno di una struttura della visione conformatasi in decenni di vita. Tuttavia l’attrazione per la semplicità e la libertà del bambino è un ottimo motore per un’arte «abbreviata» che sentiamo molto moderna. I fogli di Picasso su don Chisciotte e sulla corrida, disegnati in pochi tratti a punta di pennello, sono qualcosa di toccante, come la sua spiritosa maniera di disegnare i due occhi in un profilo o il naso appiattito di lato. In modo ancora più chiaro Paul Klee attinse al mondo infantile per le sue costruzioni e figure. Oppure le vedute di città e folle di piccoli personaggi dipinti per tutta la vita da Laurence Stephen Lowry. Ma si tratta sempre di ispirazione, non di assunzione di uno stile.

Si può definire arte il disegno infantile? È il bambino un artista nato che probabilmente si guasterà in seguito apprendendo tecniche e modi? Su queste domande si è sviluppata una vastissima letteratura. Per una panoramica rimando al libro Claire Golomb, L’arte dei bambini. Contesti culturali e teorie psicologiche (2004). Personalmente non credo si possa rispondere oggi quando continuiamo a dibattere su che cosa sia l’arte. Posso dire che anch’io ho esaminato migliaia di disegni e dipinti infantili, dalla prima elementare alla terza media. Mi sembra innegabile che in questo percorso di otto anni ci sia un’evoluzione verso l’adeguamento tra disegno e realtà che cresce in parallelo allo sviluppo della mente e del cervello e che ovviamente non può prescindere dell’influenza degli insegnanti con le loro aspettative diciamo «scolastiche». Trovo molto interessante per questo quel che consigliava Mark Rothko, per vent’anni amato professore d’arte con alunni fra i 3 e i 14 anni presso il Brooklyn Jewish Center. Ha lasciato scritto: «Spiega al bambino che l’arte è una forma di espressione semplice e spontanea come il linguaggio, la scrittura o il canto. Non sopprimere la creatività del bambino con l’insegnamento tecnico e teorico. Lavora per formare menti creative, non figure professionali». L’esperienza dice che insegnare preservando allo stesso tempo questa nativa spontaneità non è facile per nessuno. Il bambino artista naturale è un ideale rousseauniano e popolare nell’immaginario romantico, in quell’allineamento di bambino, folle e artista. Ma almeno una cosa il Novecento l’ha imparata bene: cercare, come i bambini, di non sacrificare la creatività alla regola. E checché se ne dica, non c’è stata nessun’altra epoca tanto creativa e ricca.

È più facile dunque essere bambino artista che artista bambino. Noi adulti sogniamo più o meno segretamente di ritornare bambini (che in fondo è un’idea evangelica), ma sappiamo che al massimo possiamo incorporare al nostro linguaggio strutturato qualche accorgimento infantile. Ed è quel che illustra la mostra di Lucca. Giunti al 1920 l’infantilismo-primitivismo è sdoganato e grandi artisti vi si cimenteranno, come Carlo Carrà, Ottone Rosai, Gianfilippo Usellini o il singolare Tullio Garbari con la sua maladresse di ispirazione maritainiana.

Michele Dolz

Pubblicato i "Studi Cattolici", 698, aprile 2019.